Formazione
La SGS, fra gli obiettivi della sua Mission, pone quello della diffusione presso le scuole pubbliche e private e presso i comuni cittadini dell’insegnamento della Geografia e di tutte le discipline a corredo degli studi geografici.
Perseguire questo obiettivo vorrà dire accrescere nei giovani la consapevolezza della dimensione terrestre e sociale in cui viviamo. Per perseguire questi scopi SGS lavora alla produzione di format di insegnamento ad integrazione di quanto già veicolato nelle scuole e nelle Università. Allo stesso modo rende disponibili corsi di formazione con lo scopo di formare nuove figure professionali nel campo della ricerca storico-archeologica, antropologica, geografica e cartografica.
Le lezioni e i corsi formativi verranno integrati da esperienze in campo, visite e lavoro in laboratorio cosi’ come da esperienze di esplorazione terrestre e acquatica. L’offerta formativa prevede per i soci viaggi formativi in Italia e all’estero.
La coscienza dei limiti
Nel corso del Novecento due guerre mondiali, la realizzazione delle armi atomiche, le catastrofi ambientali e l’incapacità di risolvere alcuni problemi planetari si sono incaricati di distruggere il clima in cui prosperava il mito del progresso. Ciò non è avvenuto perché si è indebolita l’influenza della scienza e della tecnologia sulla società, che anzi si è accresciuta; la fine del mito del progresso è stata piuttosto determinata, attraverso fasi alterne di pessimismo e di ottimismo, dalla consapevolezza che tale influenza produce anche effetti profondamente negativi.
Di tutti gli eventi del XX secolo, la realizzazione delle armi atomiche – con le esplosioni dell’agosto 1945, il successivo sviluppo della bomba all’idrogeno e la corsa agli armamenti nucleari durante gli anni cinquanta – costituisce l’avvenimento che ha influito più direttamente sull’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti della scienza e della tecnologia. La possibilità materiale di distruzione della biosfera, incubo ricorrente della generazione uscita dalla seconda guerra mondiale, è stata generata dalle scoperte della fisica, e fisici sono stati alcuni tra i principali realizzatori dell’impresa sfociata nella produzione di armi atomiche; analoghe considerazioni valgono per le armi chimiche e batteriologiche e per gli scienziati che le hanno sviluppate. La scienza ha assunto così un volto sospetto e il suo mutato rapporto con la tecnologia è emerso in modo chiaro.
Nello stesso tempo, proprio le conquiste della scienza hanno debellato le grandi epidemie e consentito, almeno nelle società sviluppate, condizioni di benessere che hanno sensibilmente allungato la durata media della vita umana e drasticamente abbattuto la mortalità infantile. La popolazione mondiale si è così accresciuta nel corso del Novecento a un tasso comparabile a quello del progresso scientifico (anche maggiore, a seconda di come si misura quest’ultimo). La densità di popolazione in alcune aree del pianeta pone peraltro gravi problemi di alimentazione, igiene e qualità della vita che non hanno trovato soluzioni compatibili con i vincoli economici e morali esistenti.
La produzione industriale, sviluppatasi a un ritmo dettato dalla simultanea crescita della popolazione di consumatori e del benessere, ha raggiunto dimensioni superiori alla capacità di tolleranza dell’ambiente e ha così creato situazioni di degrado dapprima locali e regionali, poi via via estese a interi bacini sovranazionali (si pensi al Mediterraneo) e infine a tutta la biosfera. Le catastrofi industriali di Minamata, Seveso, Bophal, Černobyl e il petrolio greggio riversato lungo le coste in seguito a numerosi disastri marittimi hanno mostrato che l’impatto ambientale della tecnologia può essere letale per molte specie viventi, incluso l’uomo.
Già dagli anni cinquanta ci si è dunque interrogati sull’opportunità di imporre dei limiti, e di quale portata, alla scienza e alla tecnologia. Il significato stesso della parola ‛limiti’ mostra che, con l’estendersi di questo dibattito, andava parallelamente disgregandosi il mito del progresso. Le principali tesi emerse dal dibattito sono quella dei limiti e quella dell’equilibrio. Nel corso degli anni ottanta e novanta è stato sostenuto – anche da chi si è guardato dal cadere in facili posizioni di rifiuto o di condanna generalizzati – che il problema dei limiti allo sviluppo della scienza nasce dalla constatazione che il sapere scientifico, in quanto studio della natura fondato sul metodo sperimentale, è anche un ‛saper fare’. Perciò la ricerca del sapere scientifico incontra una barriera là dove il corrispondente saper fare è inaccettabile per cause morali; in altre parole, l’esistenza di un codice morale costituisce un limite all’espansione del sapere e del saper fare. La tesi dei limiti è emersa in particolare nel dibattito sulla bioetica, suscitato dalla crescente capacità della biologia di manipolare il patrimonio genetico delle cellule embrionali e di creare esseri viventi mutati rispetto alle specie naturali esistenti. Ciò apre il campo a possibilità ritenute positive, quali la cura di alcune malattie ereditarie o la creazione di specie utili all’uomo, ma anche negative, quali la creazione di agenti patogeni per la guerra batteriologica o di esseri umani mutati in forme eticamente inaccettabili.
Alla tesi dei limiti si può obiettare anzitutto che l’esperienza storica ha dimostrato come l’imposizione di vincoli alla libertà della ricerca scientifica da parte della cultura e dei poteri dominanti si sia in seguito sempre dimostrata negativa. Una più consistente obiezione è quella che il sapere, pur avendo in sé potenzialità negative, rende possibili anche conoscenze e strumenti per affrontare i problemi che si determinano. Nasce così un’alternativa alla tesi dei limiti – quella che si è indicata come tesi dell’equilibrio – consistente nel porsi come obiettivo della ricerca l’analisi delle potenzialità delle nuove scoperte e, ove tali potenzialità siano pericolose, l’acquisizione delle conoscenze necessarie per affrontare e dominare i rischi che ne conseguono.
Questa tesi si fonda sull’ipotesi che sia possibile prevedere le conseguenze di una scoperta scientifica, come finora è spesso avvenuto; essa presume inoltre che l’umanità sappia trattenersi dall’applicare conoscenze potenzialmente pericolose, presunzione in realtà largamente smentita dalla storia. Malgrado questa difficoltà, tale tesi salvaguarda i fondamenti stessi della civiltà che dai tempi di Galileo si è andata costruendo in Occidente, attraverso l’individuazione di un equilibrio tra il desiderio di conoscere e saper fare proprio dell’uomo e i rischi che questo comporta.
Almeno nel mondo occidentale, il Novecento si chiude con un atteggiamento nuovo: l’uomo non deve dominare e schiacciare la natura, ma è parte della natura e deve vivere con essa. La storia del XX secolo ha eroso il mito del progresso, portando in primo piano la limitatezza delle risorse ambientali, la fragilità della biosfera, i rischi che accompagnano la crescita del sapere. Scienza e tecnologia conservano un ruolo determinante; la loro gestione solleva però problemi nuovi, rendendo ormai evidente come al sapere e al saper fare debbano essere imposti alcuni limiti derivanti in parte da motivazioni etiche e in parte dalla necessità di raggiungere un equilibrio tra esigenze contrastanti. (tratto da Enciclopedia Treccani)